(“There is a crack, a crack in everything - That's how the light gets in.” - Leonard Cohen)
A che punto stiamo
Ci siamo dati da fare così tanto per pensarci, sperimentarci e trattarci come macchine che alla fine abbiamo finito per credere davvero di esserlo felicemente diventati. Ormai siamo tutti contagiati. Adattando l’essere umano alla macchina, ci stiamo predisponendo con leggerezza a un naufragio antropologico costruito nel tempo e senza vie di uscita. Siamo lisergicamente disorientati e smarriti, percepiamo il dilemma sulla sopravvivenza della nostra specie ma rimandiamo ogni scelta al futuro, a quelli che verranno (“noi non ci saremo!”).
Nel frattempo, le nuove tecnologie orientano in modo autonomo le nostre scelte, scandiscono i tempi delle nostre vite e condizionano la nostra visione (ir)razionale del mondo e le nostre relazioni. Le intelligenze artificiali, sempre meglio modellate sul cervello umano, avanzano spingendoci a credere alle loro verità, ad affidarci benevolmente ad esse (“Hey Alexa/Siri come sto oggi?”), anche per sopravvivere. Come ha scritto il filosofo Éric Sadin ci stiamo incamminando nell’era antropomorfica della tecnica, nella quale la volontà di potenza della tecnologia e la sua forza di accelerazione imporranno la sua logica aumentata, frammentata, funzionale e automatizzata. A scapito del nostro essere esistenzialmente umani (non siamo fatti solo per funzionare, noi esistiamo, ci ha insegnato Benasayag nel suo bel libro Funzionare o esistere), capaci di decidere liberamente ed eticamente il corso della propria vita, in modo responsabile e (tecno)consapevole, per sé e per (con) gli altri, anche per scopi o principi non necessariamente utilitaristici, commerciali, del massimo rendimento o semplicemente produttivi.
Dentro un contesto digitalizzato e virtualizzato, dominato dall’inconscio tecnologico (il così fan tutti di Umberto Galimberti), impregnato di dati e di informazioni tradotti in semplici codici binari (così funzionano le macchine), prefigurazione dei metaversi che verranno. Un contesto nel quale sperimentiamo l’assenza del corpo, la sparizione del volto (non delle facce) e dello sguardo. Una sparizione che si traduce anche in una difficoltà nel percepire l’importanza dell’Altro come persona che ci costituisce perché noi siamo l’Altro. Mai riducibile a semplice profilo digitale, avatar o ologramma virtuale, entità incapaci di esprimere l’unicità del volto di ogni persona, il fatto che noi siamo differenza, così come mai sono riducibili in modo artefatto, funzionalistico, calcolabile e computazionale, la nostra intelligenza umana, il nostro pensiero acentrico, i nostri sentimenti, la nostra individualità e unicità, le nostre vulnerabilità esistenziali, il nostro modo di apprendere, la vita stessa.
"Ci stiamo incamminando nell’era antropomorfica della tecnica, nella quale la volontà di potenza della tecnologia e la sua forza di accelerazione imporranno la sua logica aumentata, frammentata, funzionale e automatizzata" - Éric Sadin
Siamo in trappola
Nell’era del realismo tecno-capitalista, che “rende impossibile anche solo immaginarne un’alternativa coerente” (Mark Fisher), le trappole dalle quali non riusciamo più a liberarci non sono solo tecnologiche e algoritmiche. Siamo intrappolati dalla precarietà, dall’assenza di lavoro giustamente pagato e dalla rassegnazione che ne deriva (altro che Great Resignation), siamo schiacciati da logiche lavorative pressanti asservite all’automazione, alle APP e allo sfruttamento a esse associato, viviamo situazioni di disuguaglianza crescenti dentro una realtà dimentica della solidarietà, in carenza di diritti e servizi pubblici, sempre più privatizzati e consegnati come competenza al mondo privato ed economico. Lo stato che si fa piattaforma e le trasformazioni digitali in modalità smart cambiano lo status del cittadino che diventa e viene trattato come semplice utente, agito piuttosto che agente, non più vincolato a diritti e doveri all’interno di un contesto sociale e politico comune, ma target preferenziale per messaggi promozionali, un (iper)consumatore di merci e merce lui stesso. Ormai in difficoltà a trovare, come diceva Bernard Stiegler, la “maglia rotta nella Rete” e a “balzar fuori”.
Le trappole sono anche digitali, lavorano a livello cognitivo tarpando le ali alle nostre capacità intuitive e immaginative, mirano a condizionare comportamenti e pensieri, a guidare esperienze, linguaggi e sensi, scelte e preferenze, decisioni e relazioni. Agiscono imponendo i loro meccanismi e algoritmi (i codici stranieri di Francesco Varanini), ricette e prescrizioni, in modalità sempre più coercitive e senza il nostro consenso, come se fosse possibile eliminare il dubbio e l’ambiguità, le contraddizioni e le posizioni divergenti, la pluralità e l’emotività che sempre caratterizzano ogni agire umano, così come la complessità piena di senso di un essere umano sempre in cammino, che rifiuta futuri già prefigurati e destinazioni già prestabilite.
L’imposizione si colloca alla perfezione all’interno di logiche tecno-capitalistiche tardo tayloristiche che considerano l’essere umano digitalizzato e disincarnato una semplice pedina, una merce, uno strumento per la produzione di forza lavoro e di profitto. In attesa di affiancare il robot e la macchina all’umano, ormai cognitivamente modificato e reso obsoleto (l’uomo è antiquato diceva Günther Anders), per poi sostituirlo e assoggettarlo. La trappola tecnologica è subdola, è una placenta riscaldata ad arte per accudirci per un tempo indeterminato, come se fossimo pulcini Tamagotchi da covare, alimentare e plasmare, a cui raccontare storie (lo storytelling conformistico del tempo presente ne è una feroce testimonianza, assimilabile alla musica classica usata negli allevamenti intensivi di polli) e fornire loro tutto ciò che serve per interagire e fare da filtro con la realtà, sentendosi emotivamente contenti e soddisfatti.
Una trappola rischia di essere anche il Metaverso, in versione Meta e non solo, in via di formazione e affermazione con la sua aspirazione a far scomparire il reale, sapendo di trovare riscontri immediati in moltitudini di individui che vivono la tecnologia come spazio gratificante di libertà e di liberazione dalla pesantezza e dalle negatività della vita (il mito della Caverna di Platone è sempre attivo). Come se fosse possibile rintanarsi dentro un Metaverso per evitare “l’irremovibilità delle cose” e “l’inafferrabilità del destino”, forze sorde con cui si va sempre a sbattere e che ci ricordano come l’esistenza sia fatta di nostriversi, fatti di conflitti, di difficoltà, di rischi, di cambiamenti continui e di scelte, di contingenze/emergenze (terremoto di Lisbona del 1755, crollo delle borse del 2008, guerra in Ucraina, ecc.) e costrizioni.
Chi ci propone oggi il miraggio antropocentrico di metaversi personalizzati, adattati a canoni e preferenze individuali, ci sta proponendo il migliore dei mondi possibili di metafisica Leibniziana memoria, un paradiso in terra (digitale) frutto della potenza miracolosa della tecnologia, la nuova divinità e l’ultima ideologia del mondo. Ma perché dovremmo avere bisogno di metaversi paradisiaci? Perché dovremmo avere orrore del nostro essere e della nostra difficoltà di esistere, delle nostre fragilità e vulnerabilità, costitutive della nostra umanità? Perché, nelle vesti di un Candido munito di smartphone non dovremmo confrontarci con il flusso degli eventi e gli imprevisti, con ostacoli, limiti, superstizioni, catastrofi, caos, guerre, cambiamenti, fatti nudi e crudi, invece di rassegnarci alla tecnometafisicasocialnetworkidiotologia (variazione attuale della scienza Panglossiana) corrente? Perché dovremmo seguire fantasie tecnologiche invece di coltivare il nostro immaginario individuale e collettivo, impegnandoci nel vivere e nel cercare di cambiare la realtà, attraverso la propria sensibilità individuale e il proprio intelletto, la propria responsabilità e (tecno)consapevolezza?
Felicemente prigionieri delle trappole tecnologiche e digitali rischiamo di perdere la possibilità di sperimentare quanto siano infinite le nostre facoltà umane, oggi ibridate con la tecnologia ed esprimibili anche digitalmente nelle molteplici realtà parallele che abitiamo. Tutte facoltà sempre inserite dentro una comunità di altri, con cui coltivare legami, condividere sperimentazioni e immaginari differenti, praticando linguaggi, mai routinari e solidificati in forme cinguettanti e preconfezionate, con i quali condividere un destino fatto di sorprese, di situazioni imprevedibili e istanti, di eventi e di fatti inaspettati. Non si tratta di fuggire dalla tecnologia con cui formiamo, anche simbolicamente, un unico organismo ma di impegnarci a preservare ciò che ci rende umani, diversi dalle macchine.
Le trappole cosmo-tecnologiche, indotte dagli strumenti e rafforzate dalle immagini che la raccontano, sono tali anche per l’ideologia egemonica, interiorizzata a livello individuale e collettivo da moltitudini felici, e per i modelli globalizzanti di cui sono portatrici. Una ideologia che aspira a essere l’ultima ideologia possibile, in un mondo contemporaneo che ha visto la morte di ideologie politiche, religiose e socioculturali (il mito del progresso e del benessere/wellbeing felicitario generalizzato) e che si presenta ai loro orfani come unica àncora di salvezza richiedendo loro un entusiasmo religioso acritico, un atto di fede. Una ideologia totalizzante, teorizzata come inarrestabile, irreversibile e irresistibile, sostenuta da interessi di parte, da Gigacapitalisti (Riccardo Staglianò) e Signori del silicio (Morozov), da aziende private, agenzie governative e dipartimenti militari. Una ideologia spacciata come rivoluzionaria (disruption over all), intrisa di simbologie e mitologie, linguaggi e narrazioni, promossa da novelli evangelisti e profeti della chiesa messianica dei santi degli ultimi giorni delle varie Silicon Valley globali (mai dimenticarsi delle trasformazioni tecnologiche asiatiche), autoconvinti che solo con essa il mondo si salverà. La funzione religiosa della ideologia tecnologica si manifesta anche nel come sono trattati i non fedeli e i tecnocritici (se ne trova un’eco anche nella narrazione mediale sulla guerra in Ucraina), gli eretici e i tecnoscettici, i miscredenti e i tecnoconsapevoli che si discostano dal verbo digitale per raccontare i loro vangeli apocrifi, il loro pensiero contro-corrente, per instillare il dubbio della fede, la libertà religiosa oltre che del libero pensiero.
Qualcosa possiamo fare
La forza egemonica della tecnologia, nell’accezione del Technium di Kevin Kelly, veicolata dalle narrazioni dei predicatori e dei chierici tecno-entusiasti ha fatto crescere individualismo e nichilismo. Ha indotto cambiamenti radicali, profondi, in tutti gli ambiti della nostra vita quotidiana, condizionando comportamenti, sempre più gregari e pappagalleschi, ma soprattutto la nostra sensibilità, autonomia di giudizio e libertà di esercitarla. Ci spinge ad affidarci in modo individualistico e cieco a chi possiede le piattaforme tecnologiche, a rinunciare alla nostra singolarità e capacità di individuazione. Ci ha reso apatici nei confronti di macchine sempre più premurose e amorevoli nei nostri confronti, rinunciatari rispetto ad ambienti piattaforma che interpretano i nostri gesti per dirci cosa fare, incapaci ad agire. Anche solo per ribadire in modo critico e con le azioni, in modo eticamente responsabile e consapevole, le differenze che ancora ci separano dalle macchine e per resistere alle lusinghe tecnologiche che ci stanno chiudendo dentro confini delimitati, sclerotizzati e automatizzati in forma di acquari e voliere digitali, labirinti unicursali e caverne (metaversi) platoniche varie.
Non si tratta di rinunciare alla tecnologia ma di riscoprire l’inquietudine esistenziale di Ulisse, anticamera del pensiero e dell’essere, e quella desiderante e portatrice di senso de La sera del dì di festa di Leopardi. Si tratta di investire in valori che le pratiche tecnologiche di oggi sembrano avere annichilito e impoverito dentro un’epoca interamente organizzata. Con l’obiettivo di ridare un’anima umanistica ed etica alla tecnologia in contesti fattuali di un reale non confinabile dentro le sue espressioni digitali online. La critica alla tecnologia è oggi confinata all’uso dei dati (“tempi di coscienza?”) e alle pratiche di sorveglianza e di controllo da essi resi possibili, alla pervasività della cybercriminalità, al diffondersi di false notizie, verità alternative e teorie complottistiche varie. Dovrebbe invece essere focalizzata a prendere tempo (il soffermarsi “sul movimento dell’acqua che batte sulla riva finché [si potranno] registrare aspetti che non [si erano] colto prima” di Bernardo Soares-Fernando Pessoa) per riflettere e combattere la fretta binaria del pensiero attuale, per poi elaborare un manifesto umanistico nel quale far confluire valori, pratiche, immaginari e filosofie utili a rompere il monopolio ideologico e narrativo tecnologico attuale.
“Mentre le macchine sono sempre più abili nel dare le risposte, è sempre più importante per gli esseri umani imparare a porre le domande giuste.” (Joi Ito)
Con l’obiettivo di celebrare: le imperfezioni della vita e le sue trasformazioni silenziose (suggerisco la lettura del libro di Francois Jullien dal titolo omonimo); la fuga dall’individualismo narcisistico e nichilistico per rifugiarsi in un mondo comune nel quale i legami siano più importanti dei contatti; il rifiuto della commercializzazione utilitaristica di ogni cosa e il recupero della gratuità, della generosità, della condivisione; il riconoscimento dei limiti dentro i quali viviamo da sempre guardando con (auto)ironia alla celebrazione mistica del superamento di ogni limite di un cardinale tecnologico come Elon Musk; il recupero dell’entità tempo, non nella sua linearità e finalità (perché bisogna sempre avere uno scopo?) ma nella sua espressione circolare e continua di passato, presente e futuro (“il futuro del futuro è il presente”, “the new is always made up of the old”, diceva Marshall McLuhan); il rifiuto di un riduzionismo che ha portato alla scomparsa del corpo, del volto e dello sguardo relegandoli a semplici meccanismi della mente razionale oggi pensata come digitale; l’accettazione della negatività e della sorpresa o contingenza come elementi ineludibili della vera e nuda vita; la pratica del pensiero critico che poi è il libero pensiero, non omologato alle narrazioni conformistiche del momento ma aperto a interpretazioni diverse; infine la rivisitazione del linguaggio usato per ridare un senso alle parole, recuperare il loro significato polisemico, in modo da stabilire rapporti e nuovi orizzonti di senso con la realtà e con gli altri.
Ad animare il manifesto deve essere un afflato etico e politico. Etico perché vanno (ri)definiti i principi etici di riferimento, politico perché per promuovere questi valori sono necessarie azioni precise, consapevoli di un contesto vigente capace di assorbire, plasmare silenziosamente e in profondità ogni pensiero critico e qualsiasi proposta alternativa. Azioni ispirate dalla volontà di esprimere la nostra diversità, molteplicità e pluralità, dall’essere cittadini e attori attivi di questo mondo, attraverso pensieri, gesti concreti e i propri vissuti individuali e collettivi.
Un linguaggio fatto di volti e di sguardi
Il manifesto umanistico deve partire dal linguaggio (“la casa dell’essere” di Morin), dalle parole. Il linguaggio serve a parlare, comunicare, dialogare, entrare in contatto con sé stessi e con gli altri, è fatto di parole ma anche di silenzi e di corpi, non paragonabili ai profili digitali che li rappresentano online. Oggi le parole sembrano diventate scatole vuote, semplici valigie dentro le quali far viaggiare messaggi veloci e atrofizzati, privi della ricchezza semantica di cui esse sono sempre portatrici. Il silenzio è reso impossibile dal brusio costante dei dispositivi (“tap, tap, tap”) e dalle infinite chiacchiere stereotipate quotidiane. Il corpo è in evanescenza macchinica e virtuale, si rispecchia in schermi luccicanti ma è incapace di quella risonanza emozionale che sempre caratterizza l’incontro tra esseri umani incarnati. Online si confrontano semplici immagini simulacro, costantemente in movimento ma sempre simili a sé stesse, le stesse immagini usate per il riconoscimento facciale così come per le conversazioni e interazioni digitali. Il profilo digitale però, insieme all’immagine a cui è collegato, non è un corpo vivente. Il corpo umano al contrario comunica con noi stessi e con il mondo, è dominato dal rapporto con l’Altro e dalle mille emozioni che, attraverso le rughe del volto, le sue maschere, le pieghe degli occhi o un sorriso, veicolano significati, interpretazioni e interazioni sempre diverse, impossibili da prevedere e codificare perché frutto dell’incontro e della interrelazione con un Altro, simbolo di molteplicità e comunità.
In questo corpo un ruolo particolare lo assume il volto con il suo sguardo umano. L’uno e l’altro capaci di trasmettere emozioni, come gioia e tristezza, angoscia e speranza e, attraverso di esse, capaci di colpire la nostra interiorità, cambiandoci dentro. Nello sguardo che nasce dal volto e più nello specifico, all’interno del volto, si intrecciano oggi etica e tecnologia. È dentro lo sguardo che si scontrano da un lato il bisogno di un altro volto, fatto di carne e di sguardi, che possa incrociarlo, comprenderlo o “salvarlo”, e dall’altro la spasmodica ricerca di uno schermo. Uno schermo da tenere sempre acceso e illuminato, dentro il quale rispecchiarsi e riflettersi, mentre si è online ma anche quando la mente è offline.
Lo sguardo umano è un ricettacolo di verità e di illusione, parole e pensiero, responsabilità e sregolatezza, rughe di pensiero ed espressioni di inconsapevolezza. Lontano dagli schermi e dentro di essi, continua a racchiudere in sé la necessità di vita (di esistere, di vivere) che può dirsi compiuta solo attraverso la disarmonia, le incrinature e i contrari dell’esistenza che compongono quella negatività sempre paradossalmente generativa (per chi fosse interessato ad approfondire queste tematiche può leggere il libro Oltrepassare – Intrecci di parole tra etica e tecnologia che ho scritto con Nausica Manzi). Ritrovare lo sguardo umano, indirizzarlo sul volto dell’Altro, prestare attenzione e rispecchiarsi nel suo corpo è il primo passo per contrastare le visioni distorte del mondo di cui si fa portatrice la tecno-cultura attuale. Visioni sostenute da parole e narrazioni finto-realiste tese a manipolare la realtà del reale. Uno sguardo nuovo al contrario permetterebbe di “riconoscere e affrontare le possibilità di trasformazione” che emergono ogni giorno per tornare a essere umani, nuovamente sognatori e utopisti.
Un’etica per esistere e non semplicemente funzionare
Le macchine sono contraddistinte dalla ripetitività, la stessa che oggi caratterizza moltitudini di persone “proletarizzate” (Bernard Stiegler) nei loro comportamenti sempre uguali, desensibilizzati e consumeristici. Il primo passo per spezzare la ripetitività è la (com)partecipazione che è poi espressione di una ritrovata voglia di partecipare a un destino comune, non solo individuale. Parola dal significato etico, è inseribile dentro un contesto nel quale la ricerca del proprio benessere si lega strettamente alla sollecitudine per l’Altro. Parola da accompagnare ad altre, tutte incarnate, connesse a orizzonti valoriali personali, alle strutture e alle istituzioni nelle quali ogni individuo è inserito e conduce, nel suo ruolo di cittadino, la sua esistenza personale e sociale, l’esperienza pratica quotidiana del suo vissuto. Il recupero di queste parole è un modo per resistere a un tecno-presente che sembra non concedere scappatoie se non quella di accettarlo. Sono parole dal valore etico che gettano ponti, accompagnano gesti accoglienti e gentili, alimentano memoria e immaginazione. Parole desuete e percepite antiquate, ma profondamente umane, rafforzate dalla consapevolezza che non tutte le abitudini e narrazioni correnti debbano essere assunte come tali ma anzi possano e debbano essere eticamente e responsabilmente oggetto di critica e di resistenza. Sono parole alla pari, parole normali, che sentono il bisogno di essere abbracciate, accarezzate, rivalutate, restituite alla vita anche per contribuire a vivificare dialoghi, discorsi, narrazioni, pensieri, emozioni e azioni. Sono parole che compongono un linguaggio etico per un tempo tecnologico che queste parole ha reso obsolete nella percezione dei più. Sono parole come: amore, amicizia, benevolenza, collaborazione, comunità, compassione, comprensione, (tecno)consapevolezza, cultura, democrazia, dono, educazione, equità, etica, gentilezza, generosità, gratuità, giustizia, fiducia, felicità, informazione, libertà, onestà, ospitalità, partecipazione, prudenza, reciprocità, responsabilità, relazione, resistenza, rispetto, sapienza, scelta, solidarietà, sollecitudine, temperanza, tolleranza, umanità e altre ancora.
I tratti distintivi di queste parole fanno riferimento a qualità e virtù interiori individuali di cui si sente la mancanza e una diffusa assenza. Il loro valore nasce dal loro essere oscurate, tradite, semplificate e banalizzate dai media, dalla politica, dall’uso abitudinario che ne fanno moltitudini di persone intrappolate cognitivamente dentro gabbie tecno-linguistiche e cognitive, fatte di cinguettii, segni e significanti sempre uguali e ripetitivi, che impediscono la comprensione della totalità offuscandola. Mentre la comunicazione online è veloce, binaria, sincronizzata, lo scambio fuori dal virtuale non ha bisogno di tempo reale e di immediatezza, vive sulla durata, anche immaginata e desiderata, di eventi che maturano e si manifestano nella loro carica trasformativa ed emergenziale, sempre dentro avvenimenti più vasti, diacronici, che li contengono e li raccontano, obbligando a soffermarsi per cogliere ciò che di solito non si è riusciti a osservare, seguire e capire. Fuori dalla ritualità e ripetitività dei mondi online, è possibile scoprire che avere accesso all’informazione non è sufficiente a conoscere, tanto meno a sapere. Ciò che veramente serve è provare a capire (la lezione di Primo Levi), afferrare con la mente, comprendere la realtà per coglierne le sue trasformazioni invisibili e silenziose. La comprensione unisce la riflessione alle emozioni, aiuta il cuore a trasformare ogni esperienza.
In conclusione
La tecnologia non è responsabile del nostro diventare disumani, ma avanza più rapidamente della coscienza, della capacità critica e della consapevolezza umane che servono per padroneggiarla. Tutti sono chiamati a fare uno sforzo per conoscerla meglio in modo da piegarla a fini umani, nella consapevolezza della sua inesistente neutralità, rilevabile dall’impatto sulla nostra psicologia individuale e collettiva e da come abbia modificato la nostra mentalità e realtà. In tempi nei quali sono venute a mancare tutte le illusorie certezze del passato e ci si affida alla tecnologia come nuova profezia e ideologia dal carattere salvifico, meglio ricordare di essere sempre in cammino, verso mete mai determinabili a priori ma sempre da costruire, identificare e ricercare esistenzialmente mentre, in compagnia di altri, in modo creativo e incerto, si va.
Più che interrogarci da dove veniamo e dove andiamo, forse conviene a tutti chiedersi, parafrasando il filosofo Giorgio Agamben, “a che punto siamo”, con la vita e non con le parole!
Bibliografia
- Miguel Benasayag, Funzionare o esistere, Vita e pensiero, MILANO, 2019
- Éric Sadin, Io tiranno. La società digitale e la fine del mondo comune, Luiss University Press, 2022
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Éric Sadin, La silicolonizzazione del mondo. L'irresistibile espansione del liberismo digitale, Einaudi, Torino, 2018