Diṡincanto – Liberazione da, o cessazione di, uno stato d’incantesimo; condizione di chi è ormai privo d’illusioni: ormai pensa al passato con disincanto.
Il tempo del disincanto
Dopo due anni di epidemia siamo stanchi, spaesati, esausti! Non per l’epidemia virale ma per quella psichica, ora acuita dalle tante crepe che emergono da un sistema mondo che sembra avere bisogno di un riaggiustamento generale.
Siamo testimoni di tante trasformazioni silenziose, la cui emergenza ci è sfuggita da sotto gli occhi, tanto eravamo impegnati a fare baldoria dentro i mondi virtuali delle piattaforme (a)social. La tecnoconsapevolezza crescente ci sta precipitando nel disincanto, con il rischio di trasformarci in esseri cinici e scettici, perché convinti di non avere più alcuna possibilità di incidere sul vissuto personale, su quello degli altri e sulla società.
Il disincanto non riguarda solo la politica e la cittadinanza, ma l’economia, la politica, il lavoro, la scuola, la vita sociale e anche la tecnologia. Non è un caso che l’astuto Zuckerberg abbia deciso di anticipare i tempi futuri preparando la fuga dal sensibile mondo verso un Paradiso virtuale chiamato Metaverso. Il disincanto non è il disincanto del mondo di Max Weber descritto come potere positivo, razionale e utile a portare l’umanità fuori dalla natura selvaggia di rousseauiana memoria e dalla magia, per dominare il mondo. È esattamente l’opposto, un disincanto fatto di pessimismo sull’impossibilità di cambiare il mondo per quello che oggi è. Un disincanto che sta tutto dentro la crisi della modernità, dopo la parentesi oppiacea della postmodernità e della liquidità, e il riemergere prepotente del reale e della sua solidità. È collegato alla morte delle utopie, alla sparizione delle cose (citazione dell’ultimo libro di Byung-Chul Han) e alla scomparsa del corpo, dematerializzato e virtualizzato, proprio per questo sempre più sofferente e malato. Il disincanto nei confronti del nostro presente è anche il protagonista non detto di Annientare, l’ultimo libro di Michel Houellebecq.
Il disincanto economico
Nonostante la crisi del 2007/2008 non sia mai finita, lo storytelling legato al PIL (+6,5% nel 2021) continua a raccontarci una realtà economica ricca di opportunità per tutti. Nel frattempo, l’entusiasmo per lo sviluppo si è smorzato, la disuguaglianza è cresciuta e molti sperimentano sulla loro pelle cosa significhi non avere strumenti per migliorare la propria vita e quella dei propri figli. A questo si aggiunge la crisi energetica in atto, preludio ad altre crisi in formazione, non solo ambientali e/o geopolitiche. Svanite le illusioni di rivoluzioni possibili a molti non rimane che guardare con disincanto adattandosi a sopravvivere.
Il disincanto politico
Se quasi il 50% degli elettori italiani preferisce disertare le urne siamo di fronte a un deficit di cognizione di sé e dei propri interessi ma anche a una crisi profonda, violenta del politico. Evidenziata dalla ricerca di soluzioni e leadership salvifiche, seppure autoritarie, populiste. La politica viene percepita come subalterna a interessi economici forti e globalizzanti, nei comportamenti prevale rassegnazione ed esasperazione (NoVax e non solo), più che diritti si cercano risarcimenti e compensazioni. Il tutto dentro una situazione di crescente subalternità. A rischio è la coesione sociale dentro un quadro involutivo caratterizzato dal declino della partecipazione pubblica, dalla insipienza e deficienza conclamata di partiti e classi dirigenti e da una defezione collettiva dalla politica. Tanti elementi di un disincanto diffuso che interessa tutti i ceti sociali, compresi quelli più intellettualmente impegnati. Con rischi ed effetti che tutti possono percepire!
Il disincanto del lavoro
Così come non è finita la storia non è finito neppure il lavoro. Si è solo precarizzato (nel 2021 la quota dei rapporti di lavoro cessati, con durata inferiore o pari a un anno, era del 74,6%, ora è già dell’82,3% - fonte Cnel), automatizzato, sempre più dominato da un algoritmo (incolpevole di per sé). Dentro la retorica della disruption che dirompente non è, della sharing economy che arricchisce solo pochi, e dell’innovazione che non innova niente, ci si scopre più poveri perché molti lavoratori ma anche imprese non hanno più accesso a benefici e conquiste della cosiddetta rivoluzione tecnologica. Mentre si celebra lo smartworking ci si dimentica di chi il lavoro non ce l’ha o ce l’ha precario a vita, anche nella cosiddetta GIG economy. Lontani i tempi delle lotte che negli anni 70 portarono all’emancipazione e al benessere milioni di persone, oggi si guarda in modo passivo e disincantato alla proliferazione di contratti subordinati, all’assenza di regole chiare su salari e pagamenti, sulla sparizione dei diritti e alla cecità della politica al riguardo. Il disincanto sul lavoro è denso di pericoli, alimenta un rancore diffuso prepolitico che prima o poi esploderà e lo farà in forma imprevedibili, dalle conseguenze fuori controllo.
Il disincanto scolastico
Nella società multietnica la crisi della scuola è un dato di fatto. La scuola è in crisi di identità, disorientata, dominata dallo spontaneismo e dal disimpegno individuale. Uno degli effetti è un disincanto diffuso che coinvolge studenti (disorientati), insegnanti (stanchi) e famiglie (in crisi) nell’assegnare alla scuola un ruolo chiave nella costruzione di futuro. I giovani, pur disorientati e smarriti, a sprazzi, continuano a manifestare la volontà di cambiare l’orizzonte della propria esperienza esistenziale, di riordinarla per darle nuovo valore e significato, ma si scontrano costantemente contro la mancanza di ascolto, la incomunicabilità e l’impossibilità di incidere nella loro realtà di discenti e di giovani in un mondo di vecchi. Per non parlare dei tanti giovani che, anche per motivi economici, smettono di andare a scuola. Il disincanto sta provocando veri e propri terremoti educativi, pedagogici, psichici e generazionali, anche perché la percezione è che nessuno sappia oggi mettere ordine nel caos che si è fin qui generato.
Il disincanto generazionale
L’Italia è un paese di vecchi, per vecchi. I più oggi sono Baby Boomer (anche io), generazione fortunata per avere vissuto uno dei periodi più ricchi di opportunità della storia recente, cresciuta durante il 68 e gli anni di piombo, Internet e fino all’era digitale. Una generazione che è forse stata la prima a ripensare la gioventù quale soggetto politico e a incidere, ancora oggi, culturalmente sulla società. Come tale è oggi criticata dalle generazioni più giovani per i privilegi acquisiti con costi elevati sulle generazioni più giovani. Nella dialettica generazionale il disincanto è grande. Gli anziani guardano con disincanto alle nuove generazioni incapaci di trasformare il mondo. I giovani guardano con distacco e disincanto a coloro che hanno divorato più risorse di quelle che lasceranno (alcuni fortunati però erediteranno di che vivere alla grande!). L’effetto di questo disincanto è la sfiducia nel futuro, l’accettazione passiva della precarietà lavorativa e la rinuncia a costruire qualsiasi progetto di vita.
Il disincanto mediale
Ormai lo hanno compreso anche i sassi. Viviamo dentro l’era della disinformazione e della sparizione della Verità. Si diffondono false credenze, idee complottiste e verità alternative, veicolate con un linguaggio spesso brutale, cinguettante e superficiale. Coinvolti in ciò che sta succedendo lo sono tutti, complici del mezzo di comunicazione che utilizzano e ormai attenti soltanto alle camere dell’eco che frequentano e alle gratificazioni che ne ricevono. In Tutto questo però l’apparato mediale ha la maggior parte della responsabilità. Molti media, tradizionali e nuovi, sono diventati strumenti di distrazione di massa, di conformismo elitario e di proletarizzazione del pensiero, per questo sempre più screditati, disprezzati e odiati. Le vendite dei giornali cartacei sono crollate, quelle online non decollano e i talk show sono trasmissioni per masochisti ser(i)ali. Il disincanto che ne deriva ha conseguenze gravi in termini di accesso all’informazione, di conoscenze e sviluppo di conoscenza/sapere, di trasparenza, libertà e democrazia.
Il disincanto tecnologico si traduce nella riduzione della presenza sui social, in modi diversi di interagire con i dispositivi, nello staccare la spina, e nel lasciarsi andare a esperienze pre-tecnologiche riscoprendo la noia, la lentezza, la pesantezza della vita fattuale, il contatto incarnato con l’Altro.
Il disincanto tecnologico
Il disincanto non è tanto riferito alla macchina tecnica, che ha in sé potenzialità immense di liberazione che il pensiero critico associa alla tecnologia e alla scienza. Il disincanto è riferito alla macchina politica, mediatizzata, sfruttata da pochi per estendere il proprio dominio sulla Terra. È un disincanto che nasce da esperienze concrete che evidenziano la distanza tra lo storyelling e la realtà. E forse nasce dall’aumentata (tecno)consapevolezza sulla tecnologia, le sue reali opportunità e i suoi reali effetti sulla vita di tutti i giorni. È un disincanto che nasce anche da esperienze dirette che lasciano il segno (sempre che lo si voglia ammettere): bullismi vari in rete, truffe via email, solitudini social, mercificazioni varie, ricadute psichiche e trappole cognitive, promesse mancate e opportunità solo per pochi, replicazione online di meccanismi di sfruttamento da sempre presenti nella realtà, insofferenza alle echo chamber, pervasività della tecnologa nella vita privata e perdita della privacy, limitazione delle libertà per eccessiva, a volte malevola, sorveglianza e controllo, ruolo della tecnologia nella vita lavorativa (automazione, precarietà, mobilità, ecc.), disillusione sul mondo delle piattaforme e delle APP, ecc. ecc.
Vivere il disincanto
Chi sperimenta il disincanto è emotivamente predisposto a capire i meccanismi di una società che non lascia più spazio all’immaginazione e alla sorpresa, che racconta il cambiamento mentre lo inibisce, che da liquida si è trasformata in solida e pesante, da libera si sta rivelando condizionata e controllata. Il disincanto, che ha sempre origini culturali e nasce dall’esperienza del mondo, può facilmente precipitare nello scetticismo e nel nichilismo ma può anche diventare uno strumento di liberazione e di redenzione, di riscatto ed emancipazione, strumento per interpretare il presente e tornare a sognare e a costruire futuri.
Il disincanto, che ha sempre una componente emotiva, una disposizione d’animo, può agire da placebo, proteggere l’individuo nel suo dire “no non ci stò” e nel non conformarsi al mondo dato e dei dati omologandosi allo storytelling prevalente, riportarlo ad agire in modo critico, da cittadino.
Una pratica di libertà che porta a guardare in faccia la realtà, esercitata in primo luogo con il corpo che con la sua forza rende libero lo spirito. Può portare a rinunciare a desideri e illusioni ma in cambio permette di recuperare tempo e senso. Il tempo interiore, non quello esteriore, e il senso della vita, nelle sue vare declinazioni ibride attuali. Come ha scritto Massimo Ilardi nel suo libro Il tempo del disincanto. Per dimenticare il passato, rimuovere il futuro, vivere il presente: “il disincanto deve proiettarsi nella vita, avere dentro e davanti a sé […] la mobilitazione, il lavoro, il consumo, la tecnica. Non si ritira mai dallo spazio pubblico, non rifugge dal conflitto, non è nichilismo passivo […]”. Il disincanto che serve oggi accetta di vivere nella società ma ne rifiuta le regole e la morale, si mette in lotta con la realtà, passa attraverso la riscoperta di sé stessi e dell’Altro, la ricerca di legami forti e trovatili si proietta nuovamente nel mondo, scende in strada, fa scelte da cittadino, usa il pensiero critico, ridefinisce i confini e le parole dell’etica, abbandona le narrazioni fatte di luoghi comuni e ne alimenta di nuove, adotta e suggerisce comportamenti e visioni del mondo diversi.