Altrove e oltre sono i luoghi dove oggi tutti vorrebbero andare, alla ricerca di speranza, in un mondo percepito ormai come senza speranza e alla fine dei tempi. Sono luoghi sconosciuti, forse inesistenti, non-luoghi (ma non nell’accezione del concetto reso celebre da Marc Augè), destinazioni utopiche da raggiungere senza punti di riferimento e consapevoli dei rischi a cui si va incontro. I rischi non sono solo gli scarsi riferimenti terrestri o celesti per orientarsi, non sono le tempeste e i marosi a cui si va incontro, ma quelli legati alla scelta del pensare, che poi è all’origine della scelta di mettersi in viaggio (qui il richiamo è a Noè e alla sua Arca, ma anche alla nave Argo).
Nel caso dell’iniziativa della Stultiferanavis, il pensare non è l’unica scelta. C’è anche la volontà di provare a dire la verità, riaffermandone l’importanza, anche se si tratterà di de-coincidere, di andare controcorrente. Dire la verità è l’unico modo per riscoprire il rispetto di sé, per contrastare la disperazione crescente e per porre un rimedio all’angoscia che sta prendendo un numero crescente di persone, ormai convinte di vivere tempi tragici (feroci li ha definiti Franco Berardi Bifo) e che porteranno alla disfatta dell’Occidente e alla morte della nostra civiltà.
Una esagerazione per molti, vissuta da apocalittici e millenaristi fuori stagione, ma come non esagerare quando si decide di salpare? Non nasceva da una esagerazione delle proprie condizioni di vita e dalle percezioni tragiche legate alla disperazione, la scelta di partire dei milioni di emigrati italiani (molti tra i miei antenati quelli partiti per il Sud America e l’Australia) dell’inizio secolo XX? Non era forse una esagerazione per loro pensare alla loro traversata transoceanica come a una traversata della vita?
Mettersi in mare, segno di follia ma forse anche di saggezza, obbliga a misurarsi con le numerose leggende e i miti che al mare solo collegati, spesso come luogo pericoloso, demoniaco e inquietante, da evitare, nel quale è facile smarrirsi, perdendo l’orientamento, per poi naufragare e perire. Mettersi in mare obbliga soprattutto a misurarsi con sé stessi, con il travaglio esistenziale interiore, vissuto oggi da molti che sulla solida terra non si sentono più sicuri e vedono nel mare una via di fuga, di speranza, di ripartenza e di potenziale serenità. Forse ciò che vedono le migliaia di migranti che lasciano le loro terre e affrontano la morte in mare.
L’andar per mare, a rischio di naufragare, è per i naviganti della Nave dei folli anche un viaggio metaforico, mentale, culturale, letterario e filosofico.
Si va per mare seguendo le orme di tanti che, pur non avendo preso il mare e quindi senza bagnarsi, in passato ne hanno raccontato le conquiste e le esplorazioni così come i disastri (naufragi), le disgrazie, i fallimenti (la scoperta delle Americhe andando verso le indie) e le conseguenze che ne derivano.
In tempi che vedono decine di barconi naufragare davanti alle coste del Mediterraneo è facile immaginare quanto si sentano al sicuro gli spettatori che osservano il tutto da lontano e con i piedi ben piantati al sicuro, sulla terraferma. Folli quindi devono apparire a molti, coloro che decidono di rischiare, di lasciare le coste per avventurarsi nei flutti affrontando la tempesta.
Folli possono sembrare coloro che abbandonano la sicurezza e la serenità rischiando la loro vita accettando l’angoscia che li accompagnerà nel loro viaggio movimentato per mare.
Saggi in realtà possono apparire se si riflette quanto sia diventato incerto e insicuro vivere sulla terraferma (sulla “piattaforma” Terra), su quanto sia diffusa l’angoscia e lo stare male, su quanta sofferenza derivi dal non sentirsi tranquilli e dal disagio interiore, psichico e cognitivo, che ormai accompagna tutti.
La maledizione non sta più nel mettersi in mare ma, al contrario, nello stare immobili sulla terra.
L’andar per mare, il prendere il timone, rinunciando alla tranquillità sulla terraferma è un gesto che va contro il disimpegno, manifesta un gesto di ribellione, una diserzione dal conformismo imperante, quantomeno una reazione vitale al malessere che si sta vivendo. Dare le vele al vento è assimilabile all’uscita dal sonno, al desiderare, al lasciarsi finalmente trascinare, al fare nuove esperienze, nella speranza di liberarsi dal disagio esistenziale, pur nella consapevolezza delle burrasche e dei rischi a cui si sta andando incontro.
Durante il viaggio per mare il folle/saggio ha tutto il tempo per contemplare una situazione che non lo riguarda più direttamente ma i cui sconvolgimenti lo toccano in maniera profonda, perché coinvolge le sorti dell’umanità tutta, dell’umano sulla Terra, del mondo intero.
In viaggio continua a essere perturbato da ciò che sa e conosce, dalla consapevolezza di quanto sta accadendo e dalla responsabilità che sente per impedirlo. Non riuscirà a ridurre l’affaticamento psichico e cognitivo. Sa di non potersi liberare dagli affanni e dalla sorte, come tutti gli altri compagni di bordo e anche come coloro che non sono mai saliti sulla nave. Cercherà di non farsi turbare per mantenere la lucidità e la tranquillità che servono per superare le tempeste e i loro sballottamenti nella certezza che prima o poi arriverà la bonaccia e il mare ritornerà calmo. A quel punto, come scriveva Seneca, essendo il saggio paragonabile a uno scoglio battuto dai marosi, non recherà traccia delle tempeste ma, rimanendo sereno, potrà continuare a svolgere il suo ruolo di testimone di virtù, coraggio e perseveranza.
Un saggio che va per mare, da chi lo osserva da lontano ormai non più sereno e tantomeno tranquillo, può certamente apparire come folle, soprattutto se il mare è in tempesta (metafora perfetta per i tempi che viviamo), ma il suo coraggio nello sfidare gli eventi può essere anche visto come gesto eroico, come capacità di sopportazione nell’affrontare le avversità.