Mi sono stancato dell’obbligo di lucidare ogni parola, ogni gesto, ogni dettaglio — come se valesse più l’aspetto che il contenuto. È faticoso dover sembrare sempre all’altezza, per non essere scartati come quella mela un po’ opaca che nessuno sceglie al supermercato. Il fatto è che molti, quella mela, non saprebbero nemmeno riconoscerla per ciò che è. Non sono mai stati sotto un melo, un pero, un ciliegio. Non conoscono l’odore della terra vera, né la differenza tra ciò che cresce e ciò che semplicemente luccica, ma è marcio dentro.

Scrivo perché preferisco la sostanza al decoro, l’osservazione al compiacimento. Ho lavorato nei sistemi, con i sistemi, a volte contro. Ufficiale dell’Aeronautica in gioventù, poi project manager, poi consulente indipendente: ho imparato a navigare la complessità senza doverla vendere.

Su Stultifera Navis cerco uno spazio dove il pensiero possa mostrarsi nudo, senza scenografie. Non ho verità da difendere, né modelli da proporre. Solo l’urgenza di mettere in fila ciò che, per me, merita ancora di essere detto.


Quello che resta quando il progetto finisce

Nei progetti complessi, la conoscenza spesso si disperde prima ancora di consolidarsi. Questo articolo nasce da un'esperienza sul campo: osservare come si lavora, come si dimentica, come si scrive (o non si scrive) ciò che dovrebbe restare. Non è una teoria sulla documentazione, né una guida tecnica. È una riflessione su ciò che rimane — e su ciò che andrebbe custodito con più attenzione.

Etiam capillus unus habet umbram suam. (Anche un singolo capello ha la sua ombra.)

Non ho mai capito se l’invidia sia davvero un’emozione o piuttosto un pensiero con pretese metafisiche. Essa non si accontenta di dolere, vuole spiegare, interpretare, insinuare un ordine delle cose in cui tutto – soprattutto il nostro malessere – abbia una ragione. E quella ragione, naturalmente, non siamo noi. Siamo stati danneggiati. Qualcun altro ha avuto ciò che, per una geometria astrale o per tacito accordo universale, spettava a noi. L’invidia è l’irruzione del destino in una casella sbagliata. È la percezione che il mondo, quel mondo che pur non ci era mai stato amico, ora si prenda pure gioco di noi.

La mortalità delle civiltà. Una riflessione attraverso il pensiero filosofico orientale e arabo

Fulcenzio Odussomai scrive per attraversare, non per spiegare. I suoi testi sono appunti di viaggio dentro domande che non cercano risposte, ma percorsi. Questo è il primo di una serie. Fulcenzio Odussomai è un nome che cammina. Non firma per spiegare, ma per orientarsi scrivendo. Le sue parole nascono da una pratica riflessiva, a volte lenta, sempre esposta alla trasformazione. Ogni articolo nasce da appunti sparsi, raccolti come sassi su un sentiero. Questo è il primo passo di un itinerario aperto.

Studiare altrove. Perché il sapere non abita solo negli Stati Uniti

Il sapere non è una merce da esportazione né un privilegio da concedere. È tempo di mettere in discussione l’idea che l’istruzione abbia un solo centro e che quel centro parli inglese. Questo testo propone una riflessione sul senso profondo dello studio, sulla politica che lo regola e sull’immaginario che lo incatena. Non per rifiutare, ma per disinnescare una narrazione dominante. E aprire spazi nuovi: più liberi, più porosi, più fertili. Perché la conoscenza non si misura in prestigio, ma in possibilità. E la sua geografia non è data una volta per tutte. Va riscritta. In molte lingue. E molti luoghi.

Ecologia del debito, cultura della complessità. Intreccio tra Capra e Graeber

Debito e complessità sono due parole che abitano il lessico della crisi, ma raramente si incontrano in un discorso unitario. In questo saggio ho voluto farle dialogare, non come concetti tecnici o accademici, ma come forze culturali che modellano la nostra percezione del mondo e delle relazioni. Il pensiero di Fritjof Capra, con la sua visione sistemica della realtà, e quello di David Graeber, con la sua genealogia antropologica del debito, tracciano insieme un sentiero per comprendere le radici invisibili delle disuguaglianze, dei vincoli e delle forme di potere che oggi ci sembrano naturali. Scrivere questo testo ha significato per me esplorare un terreno comune tra scienza, storia e filosofia politica, con l’intento di riportare al centro l’interrogativo sul valore: cosa vale davvero, cosa genera legame, cosa consente di coltivare vita invece di contabilizzare obbedienza. Non si tratta di fondere due autori, ma di attraversarli come strumenti di scavo, per far emergere ciò che nei nostri sistemi culturali e istituzionali si è progressivamente sottratto alla vista: la rete dei legami. Quella che il debito tende a contrarre, e che solo un pensiero sistemico può restituire alla sua complessità originaria.

Accessibilità non è solo tecnica: è una questione di riconoscibilità, di senso, di tempo.

Parlare di informazione significa parlare di forma, e ogni forma è già interpretazione. L’architettura dell’informazione nasce da qui: dal bisogno di rendere il sapere accessibile, riconoscibile, abitabile. Non è solo organizzazione di contenuti, ma costruzione di contesti cognitivi. L’architetto dell’informazione non disegna pagine: tesse percorsi, abilita comprensioni, media significati. In un’epoca di dati opachi e rituali aziendali, il suo compito è anche critico: restituire al linguaggio progettuale la capacità di orientare. L’informazione non è mai neutra, e ogni struttura è una scelta.

De Ratione Scientiae Administrandae. Sul dovere del project manager di imparare di nuovo a pensare.

Non tutto ciò che conta si conserva, ma tutto ciò che vale si coltiva. È una differenza sottile, ma decisiva. Il lavoro quotidiano, nelle sue pieghe più ordinarie, ci trasforma. Ma cosa resta, se il fare si svuota del suo senso? Questo testo è un invito a guardare di nuovo — dentro il progetto, dentro l’organizzazione, dentro di noi. Non per trovare formule, ma per ritrovare connessioni. Scrittura, visualizzazione, relazione: sono strumenti per vedere meglio, non per semplificare. Perché ogni gesto, ogni parola, ogni documento può essere un atto di cura, oppure un'occasione persa. Sta a noi decidere.

La forma del fare. Sul progetto come pratica etica e dialogo con la complessità

In questo saggio, esploro la figura del project manager come agente etico e osservatore sistemico. Partendo da un’esperienza maturata in ambiti ad alta intensità operativa, l’autore sviluppa una riflessione che intreccia pensiero orientale, scienze cognitive e filosofia pratica. Il progetto emerge così non come sequenza tecnica, ma come forma del fare che esige presenza, discernimento e responsabilità relazionale. Una lettura necessaria per chi intende la leadership non come imposizione, ma come tensione trasformativa.

Tempo, conflitto e presenza: per una teoria integrata della regia temporale nei processi cognitivi e organizzativi

La presente riflessione si colloca all’intersezione tra la filosofia del tempo, le neuroscienze cognitive applicate e la teoria sistemica della complessità. Intende proporre una lettura integrata del concetto di “tempo” come risorsa cognitiva, affettiva e organizzativa, capace di informare tanto la gestione strategica dei progetti quanto le pratiche individuali di autoregolazione. Il quadro teorico di riferimento attinge da tre tradizioni: la fenomenologia del tempo vissuto (Husserl, Merleau-Ponty), il costruttivismo sistemico (Luhmann, von Foerster), e le neuroscienze affettive orientate alla regolazione emotiva e alla tolleranza della frustrazione (Damasio, Mischel, Panksepp).

La conoscenza che cura: architettura informativa come etica relazionale

Nel pensiero di Niklas Luhmann, il concetto di autopoiesi — mutuato dalla biologia di Maturana e Varela — descrive la capacità di un sistema di produrre e riprodurre autonomamente i propri elementi, mantenendo la propria identità operativa. Applicato ai sistemi cognitivi, questo implica che ogni atto di conoscenza non è ricezione passiva di dati, ma generazione interna di senso. Un’organizzazione, dunque, non “immagazzina informazioni”: le seleziona, le codifica, le interpreta secondo le proprie strutture. Questo spiega perché due contesti possano reagire in modo radicalmente diverso allo stesso stimolo informativo. L’autopoiesi, così intesa, restituisce dignità e complessità alla gestione della conoscenza: non un flusso neutro, ma un processo selettivo, situato e riflessivo. Costruire ambienti informativi significa allora rendere visibile e coltivabile questa capacità generativa.

Dalla sinapsi alla roadmap: progettare e documentare in ambienti complessi

Perché serve pensare prima di pianificare Questo testo si rivolge a chi guida progetti in ambienti tecnologicamente avanzati e organizzativamente complessi: chief technology officer, portfolio e project manager, responsabili dell’innovazione, architetti del software, team lead. A coloro che non cercano solo strumenti, ma modi di pensare e strutturare il lavoro in maniera più intelligente, sostenibile, orientata al valore. In contesti dove il cambiamento è continuo e le risorse limitate, progettare significa prima di tutto mettere ordine nei significati. Temi come la documentazione, l’architettura modulare e la roadmap non sono semplici strumenti tecnici, ma dispositivi che rendono leggibili e negoziabili le intenzioni. Se affrontati con consapevolezza, diventano leve strategiche per generare coerenza, responsabilità e orientamento tra chi decide, chi costruisce e chi verifica.

L’urgenza della creatività: educare al possibile, abitare il futuro

Questo ultimo articolo della serie si presenta in forma di dialogo, come esercizio di pensiero incarnato nel confronto tra due voci. F. è Fulgenzio, figura sapienziale e ricercatore del senso, voce narrativa che ha attraversato l’intero saggio. Non è un maestro dogmatico, ma un uomo che pensa camminando, dubitando, formulando ipotesi che restano aperte. G. è una giovane interlocutrice — studentessa, figlia, lettrice e coscienza inquieta — che pone domande essenziali, disarmate e attuali. La sua voce è quella di chi cerca un orientamento in un mondo che sembra non lasciare spazio alla possibilità di creare. Il dialogo si svolge in un luogo non definito — forse un’aula vuota, o una casa di campagna nel pomeriggio, un paesaggio mentale. Ma ciò che si dice in queste righe potrebbe dirsi ovunque ci sia ancora qualcuno disposto ad ascoltare davvero.

La generatività creativa: lasciare frutti, non solo tracce

Ci sono cose che si fanno per vanità, altre per necessità. Ci sono opere che si scrivono per il desiderio di lasciare un segno, e altre che si scrivono perché non si può fare altrimenti. La differenza, che sembra sottile, è invece abissale. Il primo caso produce tracce — spesso effimere, decorative, ripetitive. Il secondo genera frutti — duraturi, nutritivi, talvolta scomodi, ma necessari. Così è anche la creatività: può restare un gioco ornamentale o farsi atto generativo.

Arte come improvvisazione: il gesto che emerge dal presente

Parlare dell’arte, si sa, è pericoloso. Non solo perché ci si avventura in una selva semantica dove ogni parola è già usata, abusata, svuotata, risignificata e poi ancora capovolta; ma anche perché chi ne parla troppo, spesso non crea nulla. Eppure, ci ostiniamo a voler dire cosa sia l’arte, come se una tale entità — sfuggente, meticcia, proteiforme — potesse davvero essere contenuta in un lemma o, peggio ancora, in un saggio. Tuttavia, anziché inseguire una definizione essenziale, come farebbe un metafisico neoplatonico, si potrebbe tentare un approccio più fenomenologico: non chiedersi cos’è l’arte, ma come si manifesta, cosa fa, a quali logiche risponde quando agisce nel mondo.

Creatività come comportamento sociale: oltre il mito del genio

L’idea di creatività è stata, nei secoli, progressivamente sequestrata da una mitologia individualista, che l’ha resa sinonimo di eccezionalità. Si è parlato, a lungo, del genio come di un essere eletto, solitario, dotato di facoltà misteriose, capace di operare l’impossibile al di là di ogni contingenza sociale. Questa figura, nutrita dal romanticismo e dall’estetica borghese, ha costruito attorno all’atto creativo un’aura di sacralità inaccessibile, alimentando una narrazione tossica e disabilitante: quella secondo cui “non tutti possono creare”.

Mutevolezza e potenza: il cambiamento come forma dell’essere

Viviamo immersi in una cultura che ha elevato la coerenza narrativa e la continuità logica a criteri supremi dell’identità, come se la stabilità fosse l’unico volto dell’autenticità. Eppure, la condizione umana, nella sua profondità ontologica, eccede questi confini artificiali. Ogni esistenza, se interrogata con sguardo fenomenologico, si rivela intessuta di fratture, discontinuità e metamorfosi — non come anomalie da correggere, ma come frammenti essenziali del suo disegno. Il cambiamento non contraddice l’identità: ne costituisce la premessa e la possibilità originaria.

L’identità come spazio dinamico: corpo, abitudine e coscienza incarnata

L’identità non è una statua di marmo. È piuttosto una corda tesa tra ciò che siamo stati e ciò che possiamo diventare, un sentiero che si costruisce camminando, una struttura aperta che si riadatta alle sollecitazioni dell’ambiente, alle ferite e alle scoperte interiori. Parlare di identità, oggi, significa resistere sia alla rigidità dei ruoli, sia al dissolversi liquido delle appartenenze. Significa riconoscere che siamo, simultaneamente, continuità e trasformazione.

Fare bene le cose. Tra chiarezza operativa e profondità interiore

Mi sono svegliato con una domanda che si è fatta largo, ostinata, nella quiete della mente. Cosa significa davvero fare bene le cose? Non si tratta soltanto di “impegnarsi” o di “mettercela tutta”. Queste sono condizioni necessarie, ma non sufficienti. Fare bene è un’altra cosa. È una disposizione, un metodo, una forma mentale. E, soprattutto, una responsabilità.

Dalla relazione alla qualità: comunicare il cambiamento come progetto

Eraclito scrive: «Nel medesimo fiume entriamo e non entriamo, siamo e non siamo»¹. La frase, apparentemente paradossale, offre una delle descrizioni più asciutte e radicali del reale: ogni cosa è attraversata dal mutamento, eppure questo mutamento non è disordine. È forma in divenire, una dinamica interna che segue un principio, un logos. Non siamo di fronte all’entropia, ma a un ordine che si esprime nel fluire.